18 Ott VIRABHADRA, IL DIVINO GUERRIERO
di Marilia Albanese e Renzo Freschi
Una storia d’amore e morte
Satī era bellissima e non poteva essere altrimenti, dato che era Devi, la Grande Dea, che nelle ere cosmiche appariva ora in questa, ora in quella casata divina con fattezze e nomi differenti per diventare ancora e sempre la sposa di Śiva, il Grande Dio suo compagno dall’inizio dei tempi. Questa volta la Dea era nata da Dakṣa, grande sacerdote degli dei, custode dei valori della casta brahmanica cui apparteneva. Fin da bambina Satī aveva manifestato per il dio Śiva una profonda devozione che negli anni si era trasformata in ardente amore: era decisa ad averlo come sposo ed è notorio che quando una donna, sia pur divina, desidera ardentemente un uomo, foss’anche un dio, lo ottiene. Per la figlia, che amava teneramente, Dakṣa aveva indetto un consesso di celestiali pretendenti alla mano della giovane, che avrebbe dovuto scegliere lo sposo inghirlandandolo. Ma l’amato della Dea non era fra i convenuti, perché Daksa non lo aveva invitato, così Satī, rivolgendo un pensiero appassionato a Śiva, aveva gettato in alto la ghirlanda e il dio era apparso con al collo i fatidici fiori. Dakṣa era stato costretto ad accettare il fatto compiuto e i due sposi erano partiti per i recessi himalayani.
1. Karnataka o Tamil Nadu. Periodo Vijayanagar XVII secolo. Bronzo, fusione a cera persa, cm 28
Ma tra suocero e genero non poteva correre buon sangue: Dakṣa incarnava l’ordine stabilito dalla tradizione e rappresentava il sapere basato sui testi e le consuetudini. Śiva era il dio delle pulsioni, delle pratiche estreme, del sovvertimento e della trasgressione. Era solo questione di tempo perché la tempesta scoppiasse. L’innesco fu una grande riunione cerimoniale, ove le divinità tutte si inchinarono ossequiose a Daksa; tutte, tranne Śiva, che scatenò così la collera del suocero: “Non tollero che un essere simile, un fuoricasta, possa ricevere una parte delle offerte sacrificali. Che questo eretico se ne vada. Lo maledico”. Superiore alle invettive di Dakṣa che aveva intelletto ristretto – come sottolineano i testi – Śiva se ne ritornò ai suoi monti. Di nuovo Dakṣa indisse una grande cerimonia e invitò tutti gli dei a eccezione del disprezzato Śiva, per il quale ribadì che non ci sarebbe stata nessuna porzione di offerte. Satī decise comunque di recarsi al rito, ma venne accolta malamente dal padre che iniziò a insultare nuovamente lo sposo di lei; la Dea pronunciò parole durissime contro la cecità di Dakṣa, incapace di cogliere la suprema grandezza di Śiva e non potendo rivolgere la propria collera contro il padre, lasciò che questa la consumasse fino a bruciarla. Satī, in quanto manifestazione della Grande Dea, ne era il supremo potere, la Śakti, ed era maestra nelle arti yogiche, in grado di dominare il fuoco interiore e di decidere quando morire o, meglio, ritornare nell’immanifesto. Il sacrificio di Satī ispirò il terribile rito che dalla Dea prese il nome e che fu ufficialmente compiuto fino al XIX secolo: in esso la vedova, soprattutto se di casta guerriera, si immolava sulla pira funebre del consorte diventando, appunto, una satī. Śiva, percependo la morte di Satī, si infiammò di collera mortifera e, strappatosi una ciocca di capelli, la gettò al suolo, dando vita a due esseri terribili: Vīrabhadra(foto 1) e Mahākālī.
Il primo torreggiava fino al cielo, nero come le nubi monsoniche, con tre occhi fiammeggianti, la chioma che guizzava selvaggia e una ghirlanda di teschi. L’altra, una forma di Kālī, tenebroso aspetto della Grande Dea e sempre consorte di Śiva, nota anche come Bhadrākālī, ruggiva furiosa con le zanne digrignate, ornata di serpenti e teste mozze. Śiva ingiunse a Vīrabhadra di devastare il sacrificio di Dakṣa e questi eseguì l’ordine con estrema ferocia insieme a Bhadrākālī, fracassando gli oggetti rituali, contaminando le offerte, abbattendo e sfigurando sacerdoti e dei e alla fine decapitando Dakṣa, la cui testa Bhadrākālī prese a calci. Le divinità atterrite si gettarono ai piedi di Śiva, salmodiando inni di venerazione e proclamando che da lì in poi il dio avrebbe sempre avuto la sua parte di offerte nei sacrifici. Placatolo, lo implorarono di cancellare gli sfregi inflitti loro da Vīrabhadra e di riportare in vita Dakṣa. Śiva accolse le loro preghiere e risuscitò il suocero ponendogli sul collo la testa dell’ariete sacrificale, da cui Dakṣa trasse il suo secondo nome: «volto d’ariete». È con queste fattezze che Dakṣa (2) viene normalmente raffigurato.
2. Placca con figura elegantemente modellata. Karnataka o Tamil Nadu. XVII o XVIII secolo, lega di rame, cm 26 x 18
Un culto poco noto, ma molto diffuso
Vīrabhadra occupa un posto notevole nella devozione popolare indiana ed è rappresentato in varie modalità e dimensioni, da colossali statue fino a minuscoli monili d’oro. Che siano espressione di arte popolare, opera di raffinati argentieri, di maestri fonditori o persino di artigiani tribali, le immagini di Vīrabhadra attestano l’ampia diffusione del culto nei diversi strati della popolazione. Ma quando si diffuse questa immagine, con che materiali e tecniche, con quali varianti iconografiche e in che aree? Visto i pochi studi effettuati sul nostro guerriero, il quadro è piuttosto farraginoso, ma alcuni elementi risultano chiari. La diffusione del culto di Vīrabhadra interessò principalmente l’area dell’impero di Vijayanagara, ovvero l’altopiano del Deccan (odierni stati del Maharasthra, Andhra Pradesh, Karnataka) e parti di quelli che oggi sono il Tamil Nadu, l’Orissa e il Kerala. Il suo culto conobbe una rapida popolarità soprattutto per ragioni storiche e religiose, infatti il bellicoso impero di Vijayanagara vide nel feroce guerriero proiezione di Śiva non solo il simbolo delle virtù belliche, ma anche il custode delle tradizioni hindu minacciate dall’avanzata dei Sultanati islamici. Non a caso vīrabhadra, che significa “illustre eroe”, venne riconosciuto come divinità tutelare dei guerrieri. A Vijayanagara (odierna Hampi), capitale del regno, nel 1645 gli fu dedicato un tempio, l’Uddāna Vīrabhadra, ove la statua del dio raggiunge quasi i cinque metri di altezza, probabilmente la più alta di tutta l’India; fu proprio la sua dimensione eroica a favorirne la penetrazione anche nelle aree tribali, dove il culto dei protettori dei villaggi era largamente diffuso.
Nella turbolenta storia dell’India centro-meridionale la popolarità di Virabhadra rimase particolarmente viva anche nel XIX secolo, quando perse la sua funzione simbolica di baluardo religioso per acquistare probabilmente quella decisamente più politica di opposizione all’occupazione inglese. All’apice del culto del dio-guerriero, tra il XVI e il XIX secolo, la produzione di immagini fu molto consistente, come dimostra anche la collezione Berger, composta da diverse centinaia di esemplari. Alcune erano destinate ai templi importanti, altre erano poste sull’altare domestico e altre ancora venivano acquistate o commissionate come ex-voto, segno di una devozione profonda. In questo caso maggiori erano le disponibilità del fedele e più prezioso era il metallo usato, come l’argento e l’oro di 22 carati. (5 e 12)
Nei grandi santuari come nei templi più modesti Vīrabhadra campeggia sui pannelli lignei dei maestosi carri processionali e su stendardi appesi alle pareti dei templi, ma è soprattutto sugli altari come vere effigi del dio, nei tempietti domestici e anche su oggetti di uso personale che il divino guerriero compare maggiormente. Alcune placche hanno sul retro un manico (8) che permetteva al brahmino del tempio di impugnarle durante le cerimonie, facendole ruotare in senso orario e avvicinandole ai devoti perché potessero sfiorarle come per assorbire il potere irradiante del dio tramite il contatto fisico. Molte placche sono consumate dalla secolare manipolazione rituale, dato che le immagini degli dei (mūrti) sono quotidianamente lavate, asperse con sostanze particolari, vestite o ricoperte di fiori. In alcune il rilievo è addirittura scomparso lasciando solo il profilo delle figure. (12 e 18)
Grazie a una rete di corporazioni artigiane, custodi e interpreti di tecniche e iconografie tramandate di padre in figlio, Vīrabhadra viene scolpito in pietra e legno, fuso in statue bronzee, sbalzato su placche di rame, ottone, argento e oro, inciso su amuleti da portare al collo(9), raffigurato su impugnature di armi(10). Una presenza protettiva che infonde forza e coraggio in coloro che la venerano.
9. Medaglione in oro, Tamil Nadu, XIX/XX secolo, oro sbalzato, cm 5,5 x 3
10. Pugnale rituale, Sud India. XVII / XVIII secolo. Bronzo e ferro. H. cm 21,8.
La pietra è il materiale meno impiegato: le prime e non numerose statue di Vīrabhadra, in genere con quattro braccia, appaiono nel IX/X sec. nelle nicchie sulle pareti esterne dei templi che ospitano le divinità correlate all’idolo principale nella cella(11 e 21). Il supporto più diffuso dell’immagine di Vīrabhadra sono comunque le formelle in metallo ottenute con fusione a cera persa o a sbalzo.
Benché la produzione delle placche in metallo inizi probabilmente già prima del XV sec., il periodo di maggiore diffusione si colloca fra il XVII e il XIX sec, soprattutto nell’India meridionale e in particolare in quelli che sono oggi gli stati del Karnataka e del Maharashtra. La mancanza di studi specialistici rende arduo dare a queste placche una provenienza geografica e una datazione precisa; la collocazione regionale rimane tuttora difficile.
Dal punto di vista formale è possibile dividerle in tre stili diversi. Il primo – che potremmo definire classico o aulico – si ispira ai dettami della tradizione artistica legata ai grandi complessi sacri hindu e definisce i particolari con grande precisione e raffinatezza (2). Le figure sono proporzionate, eleganti, spesso nella posizione detta “della triplice flessione” – tribhaṅga – che rafforza la sensazione di movimento (1 e 20). Il secondo stile, che potremmo definire “popolare”, declina il primo con forme dove la forza dell’icona prevale sull’armonia delle figure; i corpi appaiono più rigidi e meno dettagliati, anche se con particolari che esprimono l’estro creativo degli artigiani che le hanno prodotte. Si tratta di placche eseguite da laboratori di provincia e non dagli esclusivi atelier legati ai templi più importanti (22). La terza categoria proviene dal mondo delle etnie che tuttora occupano vaste aree dell’India, gruppi tribali che, pur convertiti all’induismo, mantengono culti e tradizioni autoctone. Stilisticamente sono placche completamente diverse da quelle appena descritte: la figura del dio non appare solo stilizzata, ma è trasformata in una immagine “primitiva” dove realismo e proporzioni non seguono i canoni della scultura indiana classica (15). Formalmente hanno un impianto tradizionale, elaborato però con grande fantasia. Indipendentemente dallo stile, l’iconografia non subisce grandi mutamenti nel corso dei secoli, poiché l’aderenza alle regole tramandate dalla tradizione garantisce la sacralità dell’immagine e il suo potere taumaturgico.
14. Maharashtra o Karnataka. XVII secolo. Lega di rame. Cm 35 x 15. (figura in alto)
15. Maharashtra. XIX secolo. Bronzo. Cm 25 x 17,2.( figura in basso)
I mille dettagli
Le placche in metallo, in genere sono rettangolari oppure terminano a ogiva o a triangolo e la parte superiore spesso presenta una lavorazione a fiamme: Vīrabhadra è infatti descritto apparire tra un baluginio di fuoco. Quelle più elaborate inseriscono il dio sotto una struttura ad arco sorretta da pilastri o colonnine di fattura più o meno complessa, la prabhāvali, che simboleggia l’alone di luce che accompagna l’apparizione di un essere divino. Spesso l’arco è sovrastato da lingue di fiamma e nei capitelli possono essere inseriti animali mitici come i makara, mostri acquatici, e gli yali, sorta di leogrifi (16).
All’apice dell’arco si trova un mascherone leonino noto come “volto di gloria”, kīrtimukha, la cui origine si collega al mito in cui, infuriato per la protervia di un demone, Śiva aveva aperto il suo terzo occhio di fuoco e aveva generato un terribile mostro famelico. Questi, non avendo di che soddisfare la sua fame, venne indotto da Śiva a divorare se stesso. Quando ormai non rimaneva più che il volto del mostro, il dio lo aveva fermato proclamandone il coraggio e la fedeltà e decretando che le sue fattezze sarebbero state scolpito sui templi śivaiti come kīrtimukha, “volto di gloria” appunto. Il motivo del mascherone ferino divenne un elemento decorativo presente nell’architettura e nell’arte religiosa di tutta l’India.
16. Karnataka. XIX secolo. Bronzo. Cm 29 x 25.
17. Tamil Nadu. XIX secolo, Argento sbalzato, Cm 21,5 x 14.
Negli angoli in alto della placca si trovano il Sole e la Mezzaluna, in posizione intercambiabile. I due astri sono resi per lo più con cerchio e semicerchio; non mancano però esempi in cui il Sole è raggiante o a forma di fiore. Accanto al Sole e alla Mezzaluna compaiono il liṅgayoni, simbolo dell’unione del maschile e del femminile, e il toro Nandin, cavalcatura di Śiva.
La postura di Vīrabhadra varia: quando è stante, può apparire rigidamente frontale o leggermente appoggiato sul fianco destro, con entrambi i piedi rivolti in avanti, più o meno distanziati fra loro, il sinistro talvolta girato in fuori (più rara la raffigurazione contraria). Quando è in movimento, il bacino ruota per lo più verso sinistra e in questa direzione vanno i piedi, mentre la parte alta del tronco rimane frontale (14).
18. Maharashtra (?). XIX secolo o precedente. Bronzo.
Cm 20,5 x 16,5
Il capo di Vīrabhadra è spesso sovrastato da un cobra, rappresentato con il cappuccio aperto oppure policefalo, le teste sempre in numero dispari – cinque o sette. Il dio porta un particolare copricapo, una tiara che riprende la forma di un cesto di bambù e che in alcuni casi si prolunga in alette dietro alle orecchie, sottolineandone la funzione di elmo. Il volto di Vīrabhadra può presentare alcuni elementi che lo collegano al dio Śiva: il terzo occhio al centro della fronte e sopra i tre segni orizzontali che connotano gli Śivaiti. Altro elemento distintivo sono i baffi (3), la barba e il mento bifido. La veste è costituita da un panno avvolto in differenti fogge attorno ai fianchi, fermato in vita da una cintura con un fermaglio spesso a testa di leone. Vīrabhadra calza sandali in legno costituiti da una suola con due tacchi alti, anteriore e posteriore, e da un piccolo montante con pomello che si infila fra l’alluce e il secondo dito (7). Quando è rappresentato con due braccia, impugna la spada nella destra e lo scudo nella sinistra (18). Se le braccia sono quattro, in genere si aggiungono nelle mani superiori l’arco e la freccia o la faretra. Il massimo della possanza del dio è reso con dieci o più braccia, le cui mani impugnano altrettanti oggetti rituali (19).
Vīrabhadra indossa una profusione di bracciali, collane a girocollo, a più giri di perle, con porta amuleti. Tipica del dio è la collana di rudrākṣa, gli “occhi di Śiva”, semi sfaccettati di Elaeocarpus, pianta sacra al dio. Dalla spalla sinistra scende sul fianco destro il cordone della cerimonia di iniziazione, imposto ai maschi delle prime tre caste hindu quando vengono affidati alla cura di un maestro. Immancabile la ghirlanda di teschi che sottolinea l’aspetto terrificante di Vīrabhadra. Accanto ai piedi di Vīrabhadra compaiono Dakṣa, con la testa di capro ornato da potenti corna ricurve, in genere alla destra, e Bhadrākālī, alla sinistra. L’iconografia di Dakṣa ha quasi sempre le medesime caratteristiche: eretto con le mani congiunte in segno di deferente saluto. La raffigurazione della Dea invece può variare, lasciando presupporre che le fattezze serene e composte alludano a Satī e i tratti più irati rappresentino invece la collera della sposa di Śiva trasformatasi in Bhadrākālī, con tiara ad elmo, spada e scudo. Nella placca 19 ad esempio, la dea veste il tipico sari delle donne indiane mentre nella (2) indossa paramenti guerrieri. Le varianti nella resa dell’abito sono molto probabilmente dovute all’epoca e al fatto che l’abbigliamento femminile variava a seconda delle aree geografiche.
Nella grande quantità di placche artigianali si distinguono quelle eseguite da un vero artista per l’energia che emana dal corpo del dio e la sua evidente furia. Si tratta di opere potentemente suggestive, riscontrabili non solo nell’ambito di quelle che abbiamo definito placche di stile aulico, ma anche tra la produzione tribale dove, malgrado i minori dettagli e la forma più semplice, le espressioni di alcuni volti di Vīrabhadra ricordano maschere rituali o spiriti della foresta.
Fino agli anni ’70 del secolo scorso molte di queste formelle si potevano acquistare anche a New Delhi da piccoli rigattieri che spesso li vendevano a peso. Esisteva allora in India (come anche in Italia) la figura del ferrovecchio che andava di strada in strada per acquistare oggetti di metallo non più utilizzati perché rotti o consumati. Alcuni venivano selezionati e venduti a pezzo, altri a peso, e tutti gli altri mandati in fonderia per essere fusi e diventare nuovi oggetti. Si potrebbe obiettare che le statue di una divinità sono sacre e che non dovrebbero essere vendute o distrutte ma per la tradizione religiosa indiana le murti (immagini di divinità) non sono rappresentazione del divino ma il dio stesso che quindi deve avere una forma perfetta: ogni imperfezione, rottura o consunzione è inaccettabile e perciò la statua deve essere sostituita. Era dunque inevitabile che anche le formelle di Virabhadra più consunte venissero vendute al raccoglitore per essere fuse e proprio per questa ragione quelle acquistate dai collezionisti sono state sicuramente salvate da una trasformazione in barre di metallo.
Un’altra ragione per la quale molte immagini di Virabhadra sono state vendute dai templi e dai fedeli che le possedevano è legata al fatto che in India anche gli dei sono soggetti agli eventi storici che ne accrescono o diminuiscono la popolarità. L’esempio più significativo è quello di Brahma, una delle divinità più antiche, al quale sono dedicati pochissimi templi in tutto il Paese. Anche il culto di Virabhadra -molto diffuso fino agli inizi del XX secolo poiché emblema del guerriero che difende la religione da nemici e da invasori- subì un declino della popolarità che portò quindi alla vendita di molte placche e statue.
La più importante collezione al mondo di raffigurazioni di Vīrabhadra è quella milanese di Paola e Giuseppe Berger, che annovera molte centinaia di pezzi compresi in un arco di tempo fra il XIII e il XX sec. In essa sono illustrate le differenti declinazioni dell’immagine di Vīrabhadra: in forma statuaria, per essere esposto nei templi e quindi di dimensioni notevoli, in granito e legno; come immagine dipinta su carta, stoffa, legno, vetro per la devozione domestica come idolo collocato su appositi altarini o come figura sbalzata su placche di diversi metalli; e, ancora, cesellato su impugnature di spade e pugnali, monili, ciondoli e amuleti. –> Dal 21 Ottobre al 19 Novembre 2022
(Estratto dell’articolo pubblicato su Arts of Asia, Autunno 2022)
Foto di Pietro Notarianni
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