Sono passati quasi cinquant’anni da quando arrivai a Kabul nel 1970 e più di quaranta dall’apertura di “Mandala”, il mio primo negozio nel cuore della Milano medioevale. La mia storia è stata piena di curiosità, viaggi, scoperte, amore per i luoghi che ho visitato e rispetto per le culture che ho incontrato. All’inizio etnografia, arte popolare e poi arte antica, e poi archeologia e arte classica e poi anche fotografia e arte contemporanea. Ovviamente asiatiche.
Tutte le foto che vedete le ho scattate personalmente.
Renzo Freschi ha una galleria d’Arte Orientale a Milano. Nel Quadrilatero, il reticolo di vie tra Montenapoleone, via Senato, corso Venezia e via Manzoni. A Milano non tutti sanno cosa sia il Quadrilatero.
Lo sanno meglio i nomadi dello shopping di Tokyo e di Los Angeles. È il quartiere al mondo dove i negozi (se si esclude Tokyo) al metro quadro costano di più. È il quartiere in cui gli stilisti hanno sostituito quasi ogni altra attività commerciale. Una volta gli antiquari vi erano numerosi, ora vi sono rimasti i più solidi, quelli cui l’antica tradizione e la solida clientela consente ancora di pagare le terribili spese di saracinesca. Freschi, che è arrivato nel Quadrilatero quando molti altri antiquari e galleristi se ne erano già andati, al mestiere è arrivato per caso. È studente di Filosofia alla Statale di Milano alla fine degli anni Sessanta; unica prospettiva l’insegnamento. L’idea lo deprime. C’è in giro una grande irrequietezza, un grande fermento. Freschi sente il disagio, non condivide l’entusiasmo. Mentre altri partono per le manifestazioni internazionaliste a Berlino o a Cuba, lui parte per l’Afghanistan. Non è un pioniere. Pionieri sono stati i ragazzi australiani che hanno approfittato dell’apertura dell’Afghanistan da parte di Zahir Shah per compiere tutto il viaggio per mare e per terra fino alla Gran Bretagna e l’Irlanda dei loro nonni. Per Kabul c’è ormai quasi un collegamento di linea. È il Magic Bus, che parte da Amsterdam per il Paese dei Balocchi. Freschi viaggia da solo. Parte con un treno che i sognatori chiamano ancora Orient Express, che i realisti hanno ribattezzato l’Horror Express. A Istambul si cambia. Fino a Mashad, la città santa del Khorasan, arriva il treno. Poi fino alla frontiera dell’Afghanistan e oltre la frontiera ci sono gli autobus e i camion. Qualche volta i camion e gli autobus si rovesciano lungo la strada. I passeggeri si accoccolano a raccontarsela in attesa che il destino si compia. Ci sono tagiki e patani, ubzeki e persiani. Alcuni portano in testa uno straccio come turbante altri un berretto rotondo di feltro, alcuni hanno gli occhi a mandorla e il naso piccolo e tondo, altri hanno il naso aquilino e gli occhi profondi. Freschi comincia a riconoscerli dai costumi, dai tratti somatici. È come piombare in pieno Medioevo, è il rapporto con qualcosa di incontaminato. Il paesaggio ha colori cangianti, la gente è ospitale se ti adegui alle usanze. Freschi ne è sedotto. Nei caravanserragli, dopo un percorso estenuante e nell’attesa di un altro autobus che lo porti ancora più lontano, condivide scatolette e latte condensato con loro. È difficile capire dove finisca la miseria abituale e inizi quella eccezionale, dovuta a una carestia che ormai si trascina da anni.
L’estate finisce e lo studente di Filosofia dovrebbe tornare a studiare. Compra qualche oggetto d’artigianato, braccialetti, collane, tessuti che rivende a Milano agli amici, ma a riprendere la routine non ci pensa. Si fa prestare qualche soldo e riparte subito, questa volta in aereo.
Su un aereo non è mai salito, è terrorizzato. Durante il volo sta malissimo, vorrebbe morire e giura che non volerà mai più in vita sua. Col tempo farà di necessità virtù. Questa volta ha la fortuna di capitare a Kabul in una delle rare occasioni in cui le tribù offrono al re un buskashi. È il buskashi una specie di rugby a cavallo in cui i cavalieri a squadre si contendono il corpo, prima vivo e poi sanguinolento, di una capra. A spronare i giocatori oltre allo spirito agonistico ci sono gli odi etnici. La gente è arrivata da ogni parte del paese. Urla, sangue, spezie, preghiere, danze si mescolano. Freschi non si sente più uno spettatore, ha la sensazione di aprirsi a una diversa percezione della vita. Per pagarsi il viaggio dalle valli remote, per pagarsi la sfrenata passione per il gioco che accomuna tutte le etnie, gli afghani vendono tutto quello che hanno, anche il cavallo, anche il fedele fucile. Vendono con maggior disinvoltura i giacconi di pelle mal conciata e i gioielli d’argento lavorati con finezza che arrivano per strade lunghe e tortuose da tutta l’Asia centrale. Freschi sa che per tornare ancora una volta deve guadagnarsi il viaggio.
Compra quello che pensa che si possa vendere a Milano, riempie tredici valigioni di merce e, autobus dopo autobus, dogana dopo dogana, sequestro dopo sequestro, tentativo di furto dopo tentativo di furto, attraversa l’Iran, l’Iraq, la Turchia, finché in Jugoslavia lo costringono a spedire la merce via treno. Teme di aver perso tutto, ma il 20 di dicembre, appena prima di Natale, arriva il suo tesoro. Monili, costumi e ricami delle più diverse etnie afghane e kazake vanno via in un attimo. Così può ripartire, così riparte. Su una 2 CV e col cugino. Sulle montagne dell’Anatolia fa così freddo che deve accendere il fuoco sotto il motore perché l’acqua non geli nel radiatore. Da Kabul vanno in pullman verso Nord. È Mazari i Sharif, è Balk, dove anticamente c’era il più grande bazar coperto di tutto l’Oriente, è Amqchà, l’unico mercato di goielli turkomanni. Sempre più preso dall’Oriente, comincia a percorrere in lungo e in largo India e Nepal. Lungo il triangolo Kabul-Katmandu-Goa, suoi compagni di strada sono gli hippy, ma loro se ne stanno nelle comuni, passano da una festa all’altra a stonarsi; Freschi invece si mischia con la gente. Il contatto con quel modo di vita e di pensare per lui è più eccitante di qualsiasi chilum. E poi è un ragazzo concreto: mentre “s’accresce, esplora, intende”, compra materiale etnografico. Così a Milano nel 1976 apre un negozietto. L’anno dopo fa la prima mostra a tema, in cui gli oggetti esposti hanno una loro coerenza. “La conoscenza mi permetteva di avere un rapporto più profondo con i popoli e le loro tradizioni e lo comunicavo al mio pubblico, che cresceva con me”. Nel 1980 è nel Nepal Centroccidentale. Dopo una marcia di settimane sotto la pioggia monsonica, coi sentieri che franano sotto i piedi, raggiunge la vetta di Kalingchock alta 3.800 metri, dove si svolge la Festa del Plenilunio di Saun (del mese di luglio), per celebrare la Dea Madre. Le vallate risuonano del ritmo dei tamburi, arriva il corteo degli sciamani, con le ampie tuniche bianche che si aprono a ruota durante la danza, al collo collane di semi, vertebre di serpente, ferro, zampe d’aquila e di gallina.
Cominciano a girare vorticosamente al bordo del precipizio dove sta l’altare sacrificale. Centinaia di pellegrini di etnie e religioni diverse si accalcano per arrivare in cima, cantano i “mantra” e portano galli, capre, fiori e riso per il rito. Freschi coglie con la macchina fotografica i momenti della festa e intervista gli sciamani; l’anno dopo ritorna. Le foto dell’avventura nepalese sono alle pareti del suo ufficio, un caos di libri e di fogli sparsi dappertutto: sono ritratti molto intensi. Gli occhi sono allungati e gli zigomi sporgenti. I costumi sono preziosissimi, anche quelli dei bambini, con ricami, intarsi di broccati, di pietre; sembra inconsulto che gente che fatica a mangiare possa permettersi lussi simili, ma averli è l’unico mezzo, insieme alle feste, per mantenere l’identità.
Quando torna in Italia carico di rullini e di nastri, Freschi è convinto di aver fatto scoperte importanti. Ma il mondo accademico non reagisce. Non riesce a pubblicare, né a fare una mostra. Lascia quindi “l’approccio orizzontale”, cioè il confronto con i costumi, le tradizioni che ancora sopravvivono, per tuffarsi “verticalmente” nel passato, nell’arte antica. Visita templi, musei, studia, conosce esperti e mercanti. Decide di raccogliere materiale per una mostra. Nell’India settentrionale, trova nei bazar bronzi cultuali così antichi da essere dismessi dai templi. Con una somma relativamente modesta allestisce una mostra straordinaria. Vende quasi tutto. Può finalmente trasferirsi in un negozio vero nella zona più chic di Milano. Lo arreda con raffinatezza minimalista, lo tinge in grigio perla, quasi trasparente. Da nicchie e pedane, scolpite da faretti incassati, emergono divinità indiane. Purtroppo il tempo che può dedicare ai viaggi si riduce, perché la burocrazia incalza e i conti premono, ma appena può riprende la via dell’Oriente. Percorrendo a piedi l’antica Via della Seta, che collegava l’India al Mediterraneo e alla Cina, si imbatte in una “rivelazione”: gli scavi nello Swàt e la civiltà del Gandhara. “Fin dalle epoche più remote in queste regioni si incontrano e si mescolano persiani, greci, indiani, parti, sciti e kusàna. Con Alessandro Magno si rafforza la presenza ellenica, coi suoi successori si formano regni indo-greci, che danno origine a un’arte unica, in cui la tradizione estetica ellenistica fornisce la forma, il buddhismo ‘mahàyna’ il contenuto. Quando l’arte del Gandhara viene scoperta dall’Occidente sembra di essere di fronte alle testimonianze di una civiltà mitica, come quella di Atlantide”. Mi mostra il busto di un bodhisattva. Il panneggio sembra rubato alla Nike di Samotracia, ma la posizione è rigorosamente frontale e l’unico dinamismo è dato dall’anca inclinata. È uno dei primi pezzi che ha comprato e, nonostante offerte molto vantaggiose, non vuole separarsene. Da allora la sua passione diventa la scultura, “anche se è essenziale immaginare queste statue nel loro contesto, cioè lungo le pareti del tempio, un po’ come nelle nostre cattedrali gotiche”. Comincia la stagione delle grandi mostre, che spaziano dall’arte antica indiana a quella tibetana, fino agli oggetti di scavo cinesi, il grande successo degli ultimi anni. Freschi ne spiega il motivo: le ceramiche cinesi sono bellissime e ancora facili da reperire, ci si può quindi avvicinare all’archeologia con cifre contenute; mai s’è verificato un rapporto epoca qualità prezzo così vantaggioso. È insieme il lavoro del mercante e del promotore culturale, anche se in Italia è dura: il cliente medio cerca per lo più oggetti che si armonizzino con l’arredo, i collezionisti sono rari; va assai meglio con gli stranieri, più preparati e curiosi. Il Four Seasons, proprio accanto al suo negozio, ne è una ricca miniera.